Intervento di Antonio Maglie al convegno ’Rileggere Bruno Buozzi a ottanta anni dalla sua morte 1944-2024’


L'italia di ieri, di oggi e di domani.

FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

Intervento di Antonio Maglie al convegno ’Rileggere Bruno Buozzi a ottanta anni dalla sua morte 1944-2024’

Vorrei insistere sul concetto di moralità perché non solo la nostra società attratta dal successo e dal guadagno a tutti i costi normalmente la trascura, ma anche perché di rado è stata evocata per l’antifascismo e la Resistenza. Uno storico capace di guardare le cose ben oltre i luoghi comuni, Claudio Pavone, scrisse negli anni ‘90 un bellissimo libro dal titolo “La guerra civile”. In realtà, almeno a mio parere, il messaggio più esaustivo era nel sottotitolo che venne utilizzato per arricchire un titolo che nella forma sintetica, quasi da spot, aveva il compito di attirare l’attenzione dei lettori, dei frequentatori delle librerie. Recitava: “Saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Pavone si era misurato con una tesi complessa e che poteva offrire il fianco alle strumentalizzazioni di una pseudo-ricerca storica di destra, notoriamente di ispirazione neo-fascista. Spiegava, in sostanza, le “tre guerre” (tesi condivisa con Norberto Bobbio) che vennero combattute dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945: il conflitto patriottico che aveva come obiettivo la liberazione del territorio nazionale dall’occupazione nazista coadiuvata dal regime fantoccio di Salò; il conflitto civile, quello tra italiani, antifascisti e fascisti, che in qualche maniera si ricollegava al biennio ’20-’22, alle 3500 vittime prevalentemente di sinistra provocate dalle “spedizioni punitive” che spianarono la strada al regime grazie alla complice indifferenza della monarchia e degli organi repressivi dello stato che avrebbero dovuto garantire l’ordine pubblico e l’incolumità della persone; infine, il conflitto di classe che puntava non solo a sconfiggere i fascisti e liberare il Paese ma anche a creare le condizioni per l’instaurazione di un regime socialista.
Dico questo perché negli ultimi anni per evidenti motivi legati alla situazione politica di questo paese, ma ora non solo più italiana (i saluti romani di Elon Musk e di Steve Bannon, certo non degli ideologi della liberal-democrazia), si è molto parlato di antifascismo, in particolare se sia ancora oggi una bussola utile per orientare la dinamica del dibattito pubblico o se al contrario l’adesione più o meno dichiarata o più o meno sincera alla Costituzione (peraltro messa apertamente in discussione da una proposta di riforma sponsorizzata dal governo a trazione Fratelli d’Italia, che ne fa a pezzi alcuni capisaldi) non faccia parte di un patrimonio archeologico di valori culturali prima ancora che politici, da conservare nella teca di qualche sperduto museo limitando al minimo l’accesso alla sua visione e alla sua meditazione. Un piano inclinato reso decisamente scivoloso dalla conquista di posizioni di governo da parte di leader o semi-leader che vengono colti da paresi facciale nel momento in cui li si invita a compiere pubblica dichiarazione di antifascismo; sollecitazioni, peraltro, che finiscono per apparire ripetitive, stucchevoli e inutili avendo come interlocutori personaggi da un passato estremamente pubblico e chiaro, che hanno vissuto quasi come un tradimento l’esperimento di costituzionalizzazione confuso e confusionario di Gianfranco Fini. Insomma, non ci sono motivi per sperare che si possano dichiarare antifascisti: non lo hanno fatto nel passato, non lo fanno nel presente e non lo faranno nel futuro. Tutto il resto non solo è noia ma anche retorica buona per qualche trasmissione televisiva semmai condotta da personaggi amichevolmente compiacenti. La questione è molto semplice: la loro idea di democrazia è sostanzialmente diversa da quella liberal-democratica perfezionatasi nei secoli; non a caso, Orban per loro è un modello mentre i soprassalti neo-nazisti degli elettori di Alice Weidel non provocano alcun imbarazzo, anzi. Un’idea, quella liberal-democratica, che suscita nel mondo sempre meno sostenitori se è vero, come è vero, che il numero delle democrazie tende da tempo a ridursi. Ma proprio questa perdita di valori e punti di riferimento obbliga a rivalutare il concetto della moralità soprattutto nel momento in cui ricordiamo Bruno Buozzi a 80 anni dalla morte. Sul monumento che alla Storta ricorda il suo sacrificio e quello degli altri tredici passeggeri del “camion della morte”, apparve qualche anno fa una scritta corredata di svastica: «27 gennaio, il giorno in cui ho perso la memoria». Questa voluta ed esibita smemoratezza corrisponde a una scelta apertamente immorale. Ma se quell’insulto a sei milioni di vittime dell’Olocausto e delle teorie nazi-fasciste sulla selezione della razza, si configura apertamente come una scelta immorale, di conseguenza l’antifascismo ponendosi in contrapposizione assume il carattere di una opzione morale: la scelta riguarda valori che vanno oltre la politica. C’è stata una tendenza negli anni e nei decenni passati, a svilirla nell’identificazione con una militanza politica o una scelta elettorale, in sostanza in un atto di politica-politicata. Per onestà bisogna anche dire che un contributo in tale senso lo diede pure il vecchio Pci che erede di una grande tradizione non si limitò solo ad alimentarla ma provvide pure a reclamarne il monopolio. Scelte che si inquadravano nell’ambito di una società segnata dalla guerra fredda e condizionate da un sistema nazionale che aveva decretato due diversi tipi di conventio ad excludendum ed in cui di conseguenza l’appartenenza a quello che veniva definito “arco costituzionale” rappresentava una forma di legittimazione per uno dei due “esclusi”. Non fu una scelta saggia. Soprattutto non fu una scelta di realtà perché confondeva una parte (sicuramente molto importante) con il tutto. Antifascisti erano pure Giovanni Amendola, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli per non parlare di Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti esattamente venti anni prima di Bruno Buozzi.
L’antifascismo è un valore morale, vera e propria premessa per il rifiuto di sistemi che non riconoscono la divisione e il bilanciamento dei poteri come già prefigurato da Montesquieu, o negano la libertà dell’individuo, ribaltando elaborazioni filosofiche che risalendo a John Locke, sono arrivate a noi più robuste e solide. Faccio questa premessa perché il professor Vacca ci ha raccontato la parte finale della vita di Bruno Buozzi, in sostanza l’unica ancora mancante di un elemento di certezza in grado di spiegare perché il viaggio di quel camion si sia concluso a quattordici chilometri dal centro di Roma, nei campi de La Storta. La sera del 3 giugno 1944 partirono dal famigerato carcere di via Tasso altri camion che giunsero a destinazione. Su questo mistero, soprattutto angosciante per i familiari di quelle quattordici vittime della furia nazista, nemmeno alcuni processi, peraltro animati dall’attivismo di una delle figlie di Buozzi, Iole, e di suo marito che fu anche ambasciatore in Italia, il dirigente socialista Gilles Martinet, sono riusciti a fare chiarezza. Le risposte attese da Iole Buozzi non arrivarono. Kappler raccontò, nel corso della sua testimonianza, che qualche tempo dopo il 4 giugno gli arrivò una telefonata dall’uomo che comandava il camion, Pustowka. Spiegò che il mezzo si era fermato e che i “prigionieri” avevano tentato la fuga. Per evitarla, aveva provveduto ad ammazzarli. Pustowka a Roma aveva acquisito una certa esperienza “stragista” partecipando all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Difficile credere a una simile ricostruzione. Difficile credere che Pustowka in totale autonomia potesse adottare una soluzione così definitiva. Iole Buozzi e Gilles Martinet provarono a spiegare agli inquirenti che la storia del camion che si ferma per un guasto e di una strage compiuta per evitare una fuga di gruppo non reggeva in quanto era nota la destinazione di Buozzi e degli altri tredici: Verona. E l’ordine era venuto direttamente da Mussolini. L’unica certezza al momento è che non sappiamo perché vennero uccisi. Probabilmente non lo sapremo mai. Ma la lettura della figura del sindacalista antifascista Bruno Buozzi può anche prescindere dal rischiaramento di questa zona d’ombra.
Chi era Buozzi? Tanto per cominciare, il figlio di una fase cruciale e complicata di questo paese, caratterizzata da una lunga serie di crisi che, come diceva Gramsci, “sono quei periodi in cui il vecchio sta morendo, ma il nuovo non è in grado di nascere e nell’interregno possono svilupparsi fenomeni morbosi”. L’Italia alla fine di questo periodo “diede i natali” al fascismo, fenomeno indiscutibilmente morboso. Buozzi nasce in un’Italia ancora giovane come regno unitario: un paese che sta agganciando la seconda rivoluzione industriale dopo non aver potuto agganciare la prima, perché non esisteva ancora. Parliamo di un processo globale che, secondo la periodizzazione di Eric Hobsbawm, inizia nella seconda metà dell’Ottocento, intorno al 1861 (lo stesso anno della fondazione del Regno d’Italia). Il coinvolgimento in quella rivoluzione era fondamentale per un paese largamente sottosviluppato; fu anche decisivo per l’evoluzione dell’attività sindacale: muoveva i primi passi l’industria pesante (nel 1905 fu fondata l’Ilva con la missione costruire un impianto siderurgico a Bagnoli; la denominazione della società era un riferimento al nome latino dell’isola d’Elba, dove c’erano le miniere i ferro); si moltiplicavano contemporaneamente le fabbriche di automobili concentrate soprattutto a Torino dove non a caso la Fiom trasferì la sua sede; la produzione di un nuovo materiale sintetico (la gomma) favoriva la nascita della Pirelli; la nuova rivoluzione industriale richiedeva molta energia di conseguenza si moltiplicarono le grandi centrali elettriche e il petrolio divenne una fonte essenziale. Buozzi è dentro questo nuovo Paese, il paese di Giolitti. Per quanto io abbia molta simpatia per Salvemini e convenga con lui sui metodi tutt’altro che commendevoli utilizzati dal leader piemontese ai fini della conservazione del potere (compresa la torsione della struttura prefettizia al soddisfacimento del personale tornaconto politico), non posso negare che abbia contribuito all’avanzamento socio-economico dell’Italia. Un esempio? la normativa sul lavoro minorile, all’epoca molto diffuso e non solo in Italia. Un Friedrich Engels ancora ventenne alcuni decenni prima aveva pubblicato una serie di articoli su un giornale della sua città, Barmen in Prussia, in cui puntava il dito contro gli imprenditori tessili (categoria alla quale apparteneva anche suo padre) che utilizzavano massicciamente i minori per due motivi: costavano la metà degli adulti e avevano mani più piccole e agili. Buozzi è il protagonista delle prime grandi vertenze del secolo scorso, come quella del 1912 che bloccò le fabbriche automobilistiche (non solo la Fiat) e che terminò con una sconfitta anche a causa dell’avventurosità e cecità del sindacalismo rivoluzionario; ma soprattutto quella del 1913. Erano anche gli anni della prima globalizzazione, un periodo, cioè, che in qualche maniera rende la vicenda umana di Buozzi più prossima a noi di quanto si possa pensare di primo acchito. Oggi si parla molto di polarizzazione della ricchezza. Storicamente l’unico riferimento possibile è proprio la Belle Époque. Come ha sostenuto Thomas Piketty nel libro “capitalismo e ideologia”, non dobbiamo pensare che tutto ciò che è avvenuto nel passato sia lontanissimo da noi perché proprio le due globalizzazioni ci dimostrano il contrario. Non è un caso che ad esempio, a livello di capitalizzazione borsistica, la piazza di Londra e quella di Parigi abbiano raggiunto lo stesso livello di quell’epoca passata più o meno nel 2012, cioè l’altro ieri.
Buozzi all’interno di questo nuovo clima si muove con la disinvoltura di chi sa fare i conti con la realtà. Non è un teorico, non è un ideologo, non progetta Eden impossibili, semmai li lascia costruire a Turati, con il quale si è spesso scontrato pur considerandosi un fedele allievo, o a Treves o anche alla Kuliscioff. In tal senso ha ragione Lama che vedeva in Buozzi una persona che faceva politica attraverso il sindacato. Fare politica attraverso il sindacato significa portare un po’ di companatico in più sulle tavole degli operai, dare maggiori sicurezze pensionistiche, migliorare le garanzie sul posto di lavoro, ridurre gli orari in epoche in cui anche dodici ore apparivano agli imprenditori compatibili con le capacità di sopportazione fisica dei lavoratori. E Buozzi faceva questo, nulla di più, nulla di meno, con semplicità. Angelo Tasca era stato compagno di partito di Buozzi nel Psi, poi aveva partecipato con Gramsci, Togliatti, Terracini e Bordiga, alla fondazione del Pci. Aveva per il sindacalista e l’antifascista una profonda ammirazione. Il libro, “Nascita e avvento del fascismo”, trova il suo radicamento, la sua fonte di ispirazione proprio in un monito di Buozzi, ancora oggi validissimo: «Cercare di mettere in luce taluni insegnamenti che scaturiscono dalle nostre vicende, nella speranza che ciò possa servire ai paesi dove il fascismo non è ancora installato». Tasca lo descriveva con tenera simpatia: «Bruno Buozzi, operaio autodidatta, e, come tale, un po’ timido verso i suoi grandi amici, gli “intellettualoni” Turati e Treves, ma che aveva, più di essi, un vero temperamento di uomo di Stato». Non amava le fumisterie, ma nelle lotte si trovava a proprio agio. La figura di Buozzi, la sua parabola non declina i verbi solo al passato ma li modella anche al presente. La storia non finisce mai; la storia, crocianamente parlando, è sempre “presente” e la democrazia non è un traguardo acquisito una volta per tutte tanto è vero che oggi come allora, sembrano crescere idee cariche di umori malmostosi. Il timido sindacalista autodidatta ci può aiutare e ci può far riflettere con la sua inattaccabile coerenza.
Il politologo Carlo Galli ha scritto concludendo il suo libro “Democrazia ultimo atto?”, che «la nuova guerra fredda potrebbe essere combattuta da democrazie liberiste, in corso di trasformazione in democrazie neoautoritarie da una parte, e democradure o autocrazie dall’altra”. Buozzi si trovò a fare i conti con un capitalismo in grande cambiamento, che aveva imposto il fordismo come principale sistema di produzione portando la “macchina” al centro dell’universo tanto è vero che già a quesi tempi ci si chiedeva se era l’uomo che guidava la macchina o, al contrario, la macchina che guidava l’uomo al quale, peraltro, erano chiesti solo gesti “meccanici” da replicare per tutta la durata dell’orario di lavoro; insomma, ripetitività senza creatività, condizione ideale per la discesa verso l’alienazione. La sua risposta fu un sindacato forte e unito, per giunta riscattato da una possibile morte prematura per cause finanziarie. Le casse della Fiom boccheggiavano quando venne chiamato a guidarla: mancavano anche i quattrini per finanziare le lotte. Riuscì a rilanciarla e a darle un ruolo, una funzione anche all’interno del processo di crescita politica del Paese. Si è sempre parlato tanto del Biennio rosso, dell’occupazione delle fabbriche, ma in quell’Italia in piena e caotica evoluzione accadde qualcosa di politicamente rilevante attraverso cui si possono leggere anche i passaggi successivi e su cui forse si dovrebbe riflettere un po’ di più. Nel 1919 il parlamento funzionava forse addirittura meglio di quello attuale. Tra luglio e agosto di quell’anno fu discussa e approvata la legge che introduceva in Italia la rappresentanza proporzionale; soprattutto veniva riconosciuto il diritto di voto universale (solo per gli uomini, però: allargarlo anche alle donne era complicato in un’Italia ancora così legata ai valori tradizionali ottocenteschi). Era un balzo verso la democrazia. Sino a quel momento, con una limitata eccezione giolittiana di sei anni prima, il bacino elettorale era stato sempre tenuto a stecchetto e la tagliola del censo dava a una esigua minoranza la possibilità di scegliere e decidere per tutti: i notabili si riunivano attorno al tavolino di un bar e decidevano chi doveva rappresentarli in parlamento. Il suffragio universale era una bomba ad orologeria piazzata sotto il sistema notabilare. Ci fu un tentativo di difesa: con l’inserimento del panachage e con la divisione dell’Italia in 54 collegi coincidenti esattamente con le 54 province (condizione che privilegiava il voto alla persona più che all’idea). In realtà questo tentativo per limitare i danni non riuscì: i socialisti ottennero la maggioranza relativa e dietro di loro si piazzarono i popolari di don Sturzo. Il fatto è che la democrazia appariva a tutti come un “animale” oscuro, misterioso e, per i vecchi notabili (la classe ricca e dirigente), minaccioso. Mancava la cultura del confronto, fatta eccezione per i riformisti che avevano qualche esempio straniero a cui ispirarsi. Anche per questo quando all’orizzonte apparve il fantasma del fascismo, la dialettica tra le parti assunse caratteri sempre più sterili e inutili. In pochi cercarono una via d’uscita che potesse mettere insieme una maggioranza parlamentare in grado di portare il paese fuori dalle secche dei vecchi giochi tra leader storici ormai avviati verso il viale del tramonto. Tra quei pochi c’era Buno Buozzi, cioè il timido autodidatta che aveva, però, come dice Tasca, un forte temperamento da uomo di stato.
L’attuale rivoluzione industriale si annuncia (o proclama) “definitiva” attraverso l’invenzione dell’intelligenza artificiale. Come inciderà sulla nostra democrazia? Pensare che tutto sia figlio del caso sarebbe un tragico errore. Questa rivoluzione ha una sua filosofia, un suo modo di porsi davanti alla realtà e una straordinaria capacità persuasiva attraverso i social media. Buozzi lavorò per costruire il sindacato, elemento essenziale della democrazia. Biden un paio di anni prima di abbandonare la Casa Bianca ha affermato nel corso dell’inaugurazione di una fabbrica a Phoenix che il sindacato americano ha “inventato” la classe media, con una punta di evidente orgoglio. Contemporaneamente un cinese di Taiwan che si è formato negli Usa e ha poi fondato in patria la più grande azienda mondiale privata di semiconduttori (TSMC), Morris Chang, ha sostenuto, in polemica aperta e diretta con Biden, che le nuove aziende tecnologiche devono fare a meno dei sindacati che, a suo parere, hanno portato alla rovina il settore dell’auto. La modernità di fine Ottocento e inizi Novecento, vide la nascita del Futurismo che guardava alla guerra come a uno strumento in grado di garantire “l’igiene” all’umanità: come è andata a finire lo sappiamo bene, circa ottanta milioni di morti in due guerre mondiali. Gli epigoni anche di quella impostazione culturale (semmai filtrata attraverso Sorel), Buozzi se li ritrovò nelle lotte: non ne ricavò un buon ricordo. La filosofia del nuovo capitalismo ha un nome: Accelerazionismo. Il futuro va accelerato al massimo anche attraverso la scorciatoia del potere tecnocratico e della dittatura di una tecnologia vissuta come evoluzione elitaria della società (Chang docet). Si divide in due filoni. Quello di sinistra trova i suoi sacerdoti in Alex Williams e Nick Srniceck, i suoi riferimenti filosofici nel post-strutturalismo di Gilles Deleuze e Felix Guattari e il padre fondatore addirittura in Karl Marx (si legge nel manifesto per “una politica accelerazionista”: «Non fu un pensatore che resisteva alla modernità, ma piuttosto un pensatore che cercava di analizzarla e intervenire all’interno di essa»). Una corrente di pensiero che attraverso l’accelerazione, punta a sconfiggere il neo-liberismo. Ma è il filone, al momento, che sembra avere meno presa. Quello più “fortunato” fa capo a Nick Land (e a padri “storici” come Friedrich Nietzsche), personaggio dell’ultradestra, amato da Steve Bannon e dai esteti dell’ “illuminismo oscuro”, aiutato persino da Peter Thiel, ricco uomo d’affari impegnato con un suo fondo sempre nel campo del finanziamento delle Start Up tecnologiche, munifico sostenitore di J. D. Vance, attuale vice-presidente statunitense. Nulla accade per caso.
È piuttosto agevole ritrovare attraverso una rapida ricerca su Internet, il “manifesto techno-ottimista”. L’autore è Mark Andreessen, stesso milieu di Thiel (e anche medesime predilezioni politiche), titolare di un fondo di investimenti che movimenta circa 35 miliardi di dollari; ha fatto fortuna inventando il browser Netscape per poi rivenderlo guadagnando un bel pacco di quattrini. Per lui tecnologia e mercato sono funzionali, l’intelligenza artificiale è «la nostra alchimia, la nostra pietra filosofale» perché «stiamo letteralmente facendo pensare la sabbia». L’uomo scompare di fronte a una entità superiore nella capacità di apprendimento poco importa che al momento apprenda, come ha sottolineato il Nobel Giorgio Parisi, quel che noi le diciamo di apprendere; che accumuli dati ma sia completamente sprovvista di un’anima che probabilmente non potrà mai avere. Ma Andreessen su questi dettagli sorvola e afferma: «Noi crediamo che un mercato stabilisca i salari in funzione della produttività marginale del lavoratore, pertanto, la tecnologia che aumenta la produttività fa salire i salari». Una legge che, come tutti hanno verificato negli anni e nei secoli, non ha quasi mai trovato conferme. Messianicamente Andreessen ci spiega che lui crede «nel romanticismo della tecnologia, dell’industria» e «nell’eros del treno, dell’auto, della luce elettrica e del microchip, della rete neurale e del razzo». Parole che sembrano provenire dal passato. Infatti, dopo aver ripetuto 130 volte il verbo “credere” (coniugato in vari modi ma sempre con un tono profetico) e dopo aver sostenuto che «il reddito universale di base trasforma gli uomini in animali ammaestrati dallo Stato», verso la fine si abbandona a una citazione: «Per parafrasare un manifesto di un tempo e di un luogo diversi: “La bellezza esiste solo nella lotta, non esiste capolavoro che non abbia un carattere aggressivo. La tecnologia deve essere un violento assalto alle forze dell’ignoto, per costringerle a inchinarsi davanti all’uomo». La parola “tecnologia” nel testo di Andreessen sostituisce la parola “poesia” presente invece in quello originale. Il finanziere americano, ovviamente grande elettore di Donald Trump che declina a sua volta la democrazia in versione non solo tecnologica ma anche affaristica, indica nel suo piccolo saggio un lungo elenco di “apostoli”. Un posto d’onore lo riserva a Filippo Tommaso Marinetti. E la citazione è tratta proprio dal “manifesto del futurismo” pubblicato ben oltre un secolo fa. Evidentemente quando le fonti di ispirazione sono cattive, il tempo non passa mai.

Roma, 20 febbraio 2025


Vorrei insistere sul concetto di moralità perché non solo la nostra società attratta dal successo e dal guadagno a tutti i costi normalmente la trascura, ma anche perché di rado è stata evocata per l’antifascismo e la Resistenza. Uno storico capace di guardare le cose ben oltre i luoghi comuni, Claudio Pavone, scrisse negli anni ‘90 un bellissimo libro dal titolo “La guerra civile”. In realtà, almeno a mio parere, il messaggio più esaustivo era nel sottotitolo che venne utilizzato per arricchire un titolo che nella forma sintetica, quasi da spot, aveva il compito di attirare l’attenzione dei lettori, dei frequentatori delle librerie. Recitava: “Saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Pavone si era misurato con una tesi complessa e che poteva offrire il fianco alle strumentalizzazioni di una pseudo-ricerca storica di destra, notoriamente di ispirazione neo-fascista. Spiegava, in sostanza, le “tre guerre” (tesi condivisa con Norberto Bobbio) che vennero combattute dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945: il conflitto patriottico che aveva come obiettivo la liberazione del territorio nazionale dall’occupazione nazista coadiuvata dal regime fantoccio di Salò; il conflitto civile, quello tra italiani, antifascisti e fascisti, che in qualche maniera si ricollegava al biennio ’20-’22, alle 3500 vittime prevalentemente di sinistra provocate dalle “spedizioni punitive” che spianarono la strada al regime grazie alla complice indifferenza della monarchia e degli organi repressivi dello stato che avrebbero dovuto garantire l’ordine pubblico e l’incolumità della persone; infine, il conflitto di classe che puntava non solo a sconfiggere i fascisti e liberare il Paese ma anche a creare le condizioni per l’instaurazione di un regime socialista. Dico questo perché negli ultimi anni per evidenti motivi legati alla situazione politica di questo paese, ma ora non solo più italiana (i saluti romani di Elon Musk e di Steve Bannon, certo non degli ideologi della liberal-democrazia), si è molto parlato di antifascismo, in particolare se sia ancora oggi una bussola utile per orientare la dinamica del dibattito pubblico o se al contrario l’adesione più o meno dichiarata o più o meno sincera alla Costituzione (peraltro messa apertamente in discussione da una proposta di riforma sponsorizzata dal governo a trazione Fratelli d’Italia, che ne fa a pezzi alcuni capisaldi) non faccia parte di un patrimonio archeologico di valori culturali prima ancora che politici, da conservare nella teca di qualche sperduto museo limitando al minimo l’accesso alla sua visione e alla sua meditazione. Un piano inclinato reso decisamente scivoloso dalla conquista di posizioni di governo da parte di leader o semi-leader che vengono colti da paresi facciale nel momento in cui li si invita a compiere pubblica dichiarazione di antifascismo; sollecitazioni, peraltro, che finiscono per apparire ripetitive, stucchevoli  e inutili avendo come interlocutori personaggi da un passato estremamente pubblico e chiaro, che hanno vissuto quasi come un tradimento l’esperimento di costituzionalizzazione confuso e confusionario di Gianfranco Fini. Insomma, non ci sono motivi per sperare che si possano dichiarare antifascisti: non lo hanno fatto nel passato, non lo fanno nel presente e non lo faranno nel futuro. Tutto il resto non solo è noia ma anche retorica buona per qualche trasmissione televisiva semmai condotta da personaggi amichevolmente compiacenti. La questione è molto semplice: la loro idea di democrazia è sostanzialmente diversa da quella liberal-democratica perfezionatasi nei secoli; non a caso, Orban per loro è un modello mentre i soprassalti neo-nazisti degli elettori di Alice Weidel non provocano alcun imbarazzo, anzi. Un’idea, quella liberal-democratica, che suscita nel mondo sempre meno sostenitori se è vero, come è vero, che il numero delle democrazie tende da tempo a ridursi. Ma proprio questa perdita di valori e punti di riferimento obbliga a rivalutare il concetto della moralità soprattutto nel momento in cui ricordiamo Bruno Buozzi a 80 anni dalla morte. Sul monumento che alla Storta ricorda il suo sacrificio e quello degli altri tredici passeggeri del “camion della morte”, apparve qualche anno fa una scritta corredata di svastica: «27 gennaio, il giorno in cui ho perso la memoria». Questa voluta ed esibita smemoratezza corrisponde a una scelta apertamente immorale. Ma se quell’insulto a sei milioni di vittime dell’Olocausto e delle teorie nazi-fasciste sulla selezione della razza, si configura apertamente come una scelta immorale, di conseguenza l’antifascismo ponendosi in contrapposizione assume il carattere di una opzione morale: la scelta riguarda valori che vanno oltre la politica. C’è stata una tendenza negli anni e nei decenni passati, a svilirla nell’identificazione con una militanza politica o una scelta elettorale, in sostanza in un atto di politica-politicata. Per onestà bisogna anche dire che un contributo in tale senso lo diede pure il vecchio Pci che erede di una grande tradizione non si limitò solo ad alimentarla ma provvide pure a reclamarne il monopolio. Scelte che si inquadravano nell’ambito di una società segnata dalla guerra fredda e condizionate da un sistema nazionale che aveva decretato due diversi tipi di conventio ad excludendum ed in cui di conseguenza l’appartenenza a quello che veniva definito “arco costituzionale” rappresentava una forma di legittimazione per uno dei due “esclusi”.  Non fu una scelta saggia. Soprattutto non fu una scelta di realtà perché confondeva una parte (sicuramente molto importante) con il tutto. Antifascisti erano pure Giovanni Amendola, Piero Gobetti, i fratelli Rosselli per non parlare di Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti esattamente venti anni prima di Bruno Buozzi. L’antifascismo è un valore morale, vera e propria premessa per il rifiuto di sistemi che non riconoscono la divisione e il bilanciamento dei poteri come già prefigurato da Montesquieu, o negano la libertà dell’individuo, ribaltando elaborazioni filosofiche che risalendo a John Locke, sono arrivate a noi più robuste e solide. Faccio questa premessa perché il professor Vacca ci ha raccontato la parte finale della vita di Bruno Buozzi, in sostanza l’unica ancora mancante di un elemento di certezza in grado di spiegare perché il viaggio di quel camion si sia concluso a quattordici chilometri dal centro di Roma, nei campi de La Storta. La sera del 3 giugno 1944 partirono dal famigerato carcere di via Tasso altri camion che giunsero a destinazione. Su questo mistero, soprattutto angosciante per i familiari di quelle quattordici vittime della furia nazista, nemmeno alcuni processi, peraltro animati dall’attivismo di una delle figlie di Buozzi, Iole, e di suo marito che fu anche ambasciatore in Italia, il dirigente socialista Gilles Martinet, sono riusciti a fare chiarezza. Le risposte attese da Iole Buozzi non arrivarono. Kappler raccontò, nel corso della sua testimonianza, che qualche tempo dopo il 4 giugno gli arrivò una telefonata dall’uomo che comandava il camion, Pustowka. Spiegò che il mezzo si era fermato e che i “prigionieri” avevano tentato la fuga. Per evitarla, aveva provveduto ad ammazzarli. Pustowka a Roma aveva acquisito una certa esperienza “stragista” partecipando all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Difficile credere a una simile ricostruzione. Difficile credere che Pustowka in totale autonomia potesse adottare una soluzione così definitiva. Iole Buozzi e Gilles Martinet provarono a spiegare agli inquirenti che la storia del camion che si ferma per un guasto e di una strage compiuta per evitare una fuga di gruppo non reggeva in quanto era nota la destinazione di Buozzi e degli altri tredici: Verona. E l’ordine era venuto direttamente da Mussolini. L’unica certezza al momento è che non sappiamo perché vennero uccisi. Probabilmente non lo sapremo mai. Ma la lettura della figura del sindacalista antifascista Bruno Buozzi può anche prescindere dal rischiaramento di questa zona d’ombra. Chi era Buozzi? Tanto per cominciare, il figlio di una fase cruciale e complicata di questo paese, caratterizzata da una lunga serie di crisi che, come diceva Gramsci, “sono quei periodi in cui il vecchio sta morendo, ma il nuovo non è in grado di nascere e nell’interregno possono svilupparsi fenomeni morbosi”. L’Italia alla fine di questo periodo “diede i natali” al fascismo, fenomeno indiscutibilmente morboso. Buozzi nasce in un’Italia ancora giovane come regno unitario: un paese che sta agganciando la seconda rivoluzione industriale dopo non aver potuto agganciare la prima, perché non esisteva ancora. Parliamo di un processo globale che, secondo la periodizzazione di Eric Hobsbawm, inizia nella seconda metà dell’Ottocento, intorno al 1861 (lo stesso anno della fondazione del Regno d’Italia). Il coinvolgimento in quella rivoluzione era fondamentale per un paese largamente sottosviluppato; fu anche decisivo per l’evoluzione dell’attività sindacale: muoveva i primi passi l’industria pesante (nel 1905 fu fondata l’Ilva con la missione costruire un impianto siderurgico a Bagnoli; la denominazione della società era un riferimento al nome latino dell’isola d’Elba, dove c’erano le miniere i ferro); si moltiplicavano contemporaneamente le fabbriche di automobili concentrate soprattutto a Torino dove non a caso la Fiom trasferì la sua sede; la produzione di un nuovo materiale sintetico (la gomma) favoriva la nascita della Pirelli; la nuova rivoluzione industriale richiedeva molta energia di conseguenza si moltiplicarono le grandi centrali elettriche e il petrolio divenne una fonte essenziale. Buozzi è dentro questo nuovo Paese, il paese di Giolitti. Per quanto io abbia molta simpatia per Salvemini e convenga con lui sui metodi tutt’altro che commendevoli utilizzati dal leader piemontese ai fini della conservazione del potere (compresa la torsione della struttura prefettizia al soddisfacimento del personale tornaconto politico), non posso negare che abbia contribuito all’avanzamento socio-economico dell’Italia. Un esempio? la normativa sul lavoro minorile, all’epoca molto diffuso e non solo in Italia. Un Friedrich Engels ancora ventenne alcuni decenni prima aveva pubblicato una serie di articoli su un giornale della sua città, Barmen in Prussia, in cui puntava il dito contro gli imprenditori tessili (categoria alla quale apparteneva anche suo padre) che utilizzavano massicciamente i minori per due motivi: costavano la metà degli adulti e avevano mani più piccole e agili. Buozzi è il protagonista delle prime grandi vertenze del secolo scorso, come quella del 1912 che bloccò le fabbriche automobilistiche (non solo la Fiat) e che terminò con una sconfitta anche a causa dell’avventurosità e cecità del sindacalismo rivoluzionario; ma soprattutto quella del 1913. Erano anche gli anni della prima globalizzazione, un periodo, cioè, che in qualche maniera rende la vicenda umana di Buozzi più prossima a noi di quanto si possa pensare di primo acchito. Oggi si parla molto di polarizzazione della ricchezza. Storicamente l’unico riferimento possibile è proprio la Belle Époque. Come ha sostenuto Thomas Piketty nel libro “capitalismo e ideologia”, non dobbiamo pensare che tutto ciò che è avvenuto nel passato sia lontanissimo da noi perché proprio le due globalizzazioni ci dimostrano il contrario. Non è un caso che ad esempio, a livello di capitalizzazione borsistica, la piazza di Londra e quella di Parigi abbiano raggiunto lo stesso livello di quell’epoca passata più o meno nel 2012, cioè l’altro ieri. Buozzi all’interno di questo nuovo clima si muove con la disinvoltura di chi sa fare i conti con la realtà. Non è un teorico, non è un ideologo, non progetta Eden impossibili, semmai li lascia costruire a Turati, con il quale si è spesso scontrato pur considerandosi un fedele allievo, o a Treves o anche alla Kuliscioff. In tal senso ha ragione Lama che vedeva in Buozzi una persona che faceva politica attraverso il sindacato. Fare politica attraverso il sindacato significa portare un po’ di companatico in più sulle tavole degli operai, dare maggiori sicurezze pensionistiche, migliorare le garanzie sul posto di lavoro, ridurre gli orari in epoche in cui anche dodici ore apparivano agli imprenditori compatibili con le capacità di sopportazione fisica dei lavoratori. E Buozzi faceva questo, nulla di più, nulla di meno, con semplicità. Angelo Tasca era stato compagno di partito di Buozzi nel Psi, poi aveva partecipato con Gramsci, Togliatti, Terracini e Bordiga, alla fondazione del Pci. Aveva per il sindacalista e l’antifascista una profonda ammirazione. Il libro, “Nascita e avvento del fascismo”, trova il suo radicamento, la sua fonte di ispirazione proprio in  un monito di Buozzi, ancora oggi validissimo: «Cercare di mettere in luce taluni insegnamenti che scaturiscono dalle nostre vicende, nella speranza che ciò possa servire ai paesi dove il fascismo non è ancora installato». Tasca lo descriveva con tenera simpatia: «Bruno Buozzi, operaio autodidatta, e, come tale, un po’ timido verso i suoi grandi amici, gli “intellettualoni” Turati e Treves, ma che aveva, più di essi, un vero temperamento di uomo di Stato». Non amava le fumisterie, ma nelle lotte si trovava a proprio agio. La figura di Buozzi, la sua parabola non declina i  verbi solo al passato ma li modella anche al presente. La storia non finisce mai; la storia, crocianamente parlando, è sempre “presente” e la democrazia non è un traguardo acquisito una volta per tutte tanto è vero che oggi come allora, sembrano crescere idee cariche di umori malmostosi. Il timido sindacalista autodidatta ci può aiutare e ci può far riflettere con la sua inattaccabile coerenza. Il politologo Carlo Galli ha scritto concludendo il suo libro “Democrazia ultimo atto?”, che  «la nuova guerra fredda potrebbe essere combattuta da democrazie liberiste, in corso di trasformazione in democrazie neoautoritarie da una parte, e democradure o autocrazie dall’altra”. Buozzi si trovò a fare i conti con un capitalismo in grande cambiamento, che aveva imposto il fordismo come principale sistema di produzione portando la “macchina” al centro dell’universo tanto è vero che già a quesi tempi ci si chiedeva se era l’uomo che guidava la macchina o, al contrario, la macchina che guidava l’uomo al quale, peraltro, erano chiesti solo gesti “meccanici” da replicare per tutta la durata dell’orario di lavoro; insomma, ripetitività senza creatività, condizione ideale per la discesa verso l’alienazione. La sua risposta fu un sindacato forte e unito, per giunta riscattato da una possibile morte prematura per cause finanziarie. Le casse della Fiom boccheggiavano quando venne chiamato a guidarla: mancavano anche i quattrini per finanziare le lotte. Riuscì a rilanciarla e a darle un ruolo, una funzione anche all’interno del processo di crescita politica del Paese. Si è sempre parlato tanto del Biennio rosso, dell’occupazione delle fabbriche, ma in quell’Italia in piena e caotica evoluzione accadde qualcosa di politicamente rilevante attraverso cui si possono leggere anche i passaggi successivi e su cui forse si dovrebbe riflettere un po’ di più. Nel 1919 il parlamento funzionava forse addirittura meglio di quello attuale. Tra luglio e agosto di quell’anno fu discussa e approvata la legge che introduceva in Italia la rappresentanza proporzionale; soprattutto veniva riconosciuto il diritto di voto universale (solo per gli uomini, però: allargarlo anche alle donne era complicato in un’Italia ancora così legata ai valori tradizionali ottocenteschi). Era un balzo verso la democrazia. Sino a quel momento, con una limitata eccezione giolittiana di sei anni prima, il bacino elettorale era stato sempre tenuto a stecchetto e la tagliola del censo dava a una esigua minoranza la possibilità di scegliere e decidere per tutti: i notabili si riunivano attorno al tavolino di un bar e decidevano chi doveva rappresentarli in parlamento. Il suffragio universale era una bomba ad orologeria piazzata sotto il sistema notabilare. Ci fu un tentativo di difesa: con l’inserimento del panachage e con la divisione dell’Italia in 54 collegi coincidenti esattamente con le 54 province (condizione che privilegiava il voto alla persona più che all’idea). In realtà questo  tentativo per limitare i danni non riuscì: i socialisti ottennero la maggioranza relativa e dietro di loro si piazzarono i popolari di don Sturzo. Il fatto è che la democrazia appariva a tutti come un “animale” oscuro, misterioso e, per i vecchi notabili (la classe ricca e dirigente), minaccioso. Mancava la cultura del confronto, fatta eccezione per i riformisti che avevano qualche esempio straniero a cui ispirarsi. Anche per questo quando all’orizzonte apparve il fantasma del fascismo, la dialettica tra le parti assunse caratteri sempre più sterili e inutili. In pochi cercarono una via d’uscita che potesse mettere insieme una maggioranza parlamentare in grado di portare il paese fuori dalle secche dei vecchi giochi tra leader storici ormai avviati verso il viale del tramonto. Tra quei pochi c’era Buno Buozzi, cioè il timido autodidatta che aveva, però, come dice Tasca, un forte temperamento da uomo di stato. L’attuale rivoluzione industriale si annuncia (o proclama) “definitiva” attraverso l’invenzione dell’intelligenza artificiale. Come inciderà sulla nostra democrazia? Pensare che tutto sia figlio del caso sarebbe un tragico errore. Questa rivoluzione ha una sua filosofia, un suo modo di porsi davanti alla realtà e una straordinaria capacità persuasiva attraverso i social media. Buozzi lavorò per costruire il sindacato, elemento essenziale della democrazia. Biden un paio di anni prima di abbandonare la Casa Bianca ha affermato nel corso dell’inaugurazione di una fabbrica a Phoenix che il sindacato americano ha “inventato” la classe media, con una punta di evidente orgoglio. Contemporaneamente un cinese di Taiwan che si è formato negli Usa e ha poi fondato in patria la più grande azienda mondiale privata di semiconduttori (TSMC), Morris Chang, ha sostenuto, in polemica aperta e diretta con Biden, che le nuove aziende tecnologiche devono fare a meno dei sindacati che, a suo parere, hanno portato alla rovina il settore dell’auto. La modernità di fine Ottocento e inizi Novecento, vide la nascita del Futurismo che guardava alla guerra come a uno strumento in grado di garantire “l’igiene” all’umanità: come è andata a finire lo sappiamo bene, circa ottanta milioni di morti in due guerre mondiali. Gli epigoni anche di quella impostazione culturale (semmai filtrata attraverso Sorel), Buozzi se li ritrovò nelle lotte: non ne ricavò un buon ricordo. La filosofia del nuovo capitalismo ha un nome: Accelerazionismo. Il futuro va accelerato al massimo anche attraverso la scorciatoia del potere tecnocratico e della dittatura di una tecnologia vissuta come evoluzione elitaria della società (Chang docet). Si divide in due filoni. Quello di sinistra trova i suoi sacerdoti in Alex Williams e Nick Srniceck, i suoi riferimenti filosofici nel post-strutturalismo di Gilles Deleuze e Felix Guattari e il padre fondatore addirittura in Karl Marx (si legge nel manifesto per “una politica accelerazionista”: «Non fu un pensatore che resisteva alla modernità, ma piuttosto un pensatore che cercava di analizzarla e intervenire all’interno di essa»). Una corrente di pensiero che attraverso l’accelerazione, punta a sconfiggere il neo-liberismo. Ma è il filone, al momento, che sembra avere meno presa. Quello più “fortunato” fa capo a Nick Land (e a padri “storici” come Friedrich Nietzsche), personaggio dell’ultradestra, amato da Steve Bannon e dai esteti dell’ “illuminismo oscuro”, aiutato persino da Peter Thiel, ricco uomo d’affari impegnato con un suo fondo sempre nel campo del finanziamento delle Start Up tecnologiche, munifico sostenitore di J. D. Vance, attuale vice-presidente statunitense. Nulla accade per caso. È piuttosto agevole ritrovare attraverso una rapida ricerca su Internet, il “manifesto techno-ottimista”. L’autore è Mark Andreessen, stesso milieu di Thiel (e anche medesime predilezioni politiche), titolare di un fondo di investimenti che movimenta circa 35 miliardi di dollari; ha fatto fortuna inventando il browser Netscape per poi rivenderlo guadagnando un bel pacco di quattrini. Per lui tecnologia e mercato sono funzionali, l’intelligenza artificiale è «la nostra alchimia, la nostra pietra filosofale» perché «stiamo letteralmente facendo pensare la sabbia». L’uomo scompare di fronte a una entità superiore nella capacità di apprendimento poco importa che al momento apprenda, come ha sottolineato il Nobel Giorgio Parisi, quel che noi le diciamo di apprendere; che accumuli dati ma sia completamente sprovvista di un’anima che probabilmente non potrà mai avere. Ma Andreessen su questi dettagli sorvola e afferma: «Noi crediamo che un mercato stabilisca i salari in funzione della produttività marginale del lavoratore, pertanto, la tecnologia che aumenta la produttività fa salire i salari». Una legge che, come tutti hanno verificato negli anni e nei secoli, non ha quasi mai trovato conferme. Messianicamente Andreessen ci spiega che lui crede «nel romanticismo della tecnologia, dell’industria» e «nell’eros del treno, dell’auto, della luce elettrica e del microchip, della rete neurale e del razzo». Parole che sembrano provenire dal passato. Infatti, dopo aver ripetuto 130 volte il verbo “credere” (coniugato in vari modi  ma sempre con un tono profetico) e dopo aver sostenuto che «il reddito universale di base trasforma gli uomini in animali ammaestrati dallo Stato», verso la fine si abbandona a una citazione: «Per parafrasare un manifesto di un tempo e di un luogo diversi: “La bellezza esiste solo nella lotta, non esiste capolavoro che non abbia un carattere aggressivo. La tecnologia deve essere un violento assalto alle forze dell’ignoto, per costringerle a inchinarsi davanti all’uomo». La parola “tecnologia” nel testo di Andreessen sostituisce la parola “poesia” presente invece in quello originale. Il finanziere americano, ovviamente grande elettore di Donald Trump che declina a sua volta la democrazia in versione non solo tecnologica ma anche affaristica, indica nel suo piccolo saggio un lungo elenco di “apostoli”. Un posto d’onore lo riserva a Filippo Tommaso Marinetti. E la citazione è tratta proprio dal “manifesto del futurismo” pubblicato ben oltre un secolo fa. Evidentemente quando le fonti di ispirazione sono cattive, il tempo non passa mai.  Roma, 20 febbraio 2025

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